INTERVENTI DI DON EROS MONTI
“Pace a questa casa”. Così si apre il messaggio
di Papa Francesco per la Giornata mondiale della pace, e subito dopo ci viene detto che la casa di cui si parla è ogni famiglia, ogni
comunità, ogni paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro
storia. È prima di tutto ogni persona senza distinzioni né discriminazioni. È
anche la nostra casa comune, il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare, e
del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine.
Ecco, quando auguriamo la pace, certo pensiamo alle case, come
quelle che circondano questo ambiente, che costituiscono i nostri paesi,
le nostre città, ma pensiamo soprattutto
alle relazioni: la casa è anche lo spazio in cui viviamo, la casa è tutto il
mondo. Allora oggi, se vogliamo
guardare davvero alla pace, dobbiamo
allargare l’orizzonte, alzare lo sguardo, renderci conto che c’è un mondo che
davvero potrebbe crescere nella pace, ma tante volte è frammentato, è diviso. E
allora vogliamo guardare oggi alla pace come una realtà che non ha limiti, una
realtà sconfinata, proprio come il sogno di Martin Luther King, il sogno di
un mondo nuovo, ma che parte già da adesso, che parte da oggi. Ecco allora
vorremmo seguire oggi un po’ questo filone conduttore. Vediamo il mondo non semplicemente come uno spazio, ma proprio come un
campo da coltivare, un terreno affidato alla nostra custodia, una storia entro
cui siamo chiamati a gettare un seme. E allora oggi siamo qui non solo per
condividere qualche buono spunto, qualche riflessione, qualche buona idea, ma
siamo qui per impegnarci, come indica già di per sé questo essere qui, aver
deciso di camminare insieme. È’
l’impegno del muoverci nella stessa direzione, per essere e per diventare, già
oggi, coltivatori di pace.
1) Il seme della pace è
la speranza.
E il primo passo a cui siamo chiamati, per cui siamo qui ora, ce
l’ha richiamato la breve frase iniziale: la
pace è simile alla speranza, come un fiore fragile che cerca di sbocciare in
mezzo alle pietre della violenza. È ancora una volta il messaggio mondiale
della pace a dircelo. Diamo allora un nome preciso a questo seme che vogliamo
cominciare a gettare. È il seme della
speranza. Ma se vogliamo essere buoni seminatori, sappiamo che la prima
cosa è quella di metterci a dissodare il terreno. Il terreno non è già pronto
per gettare il seme della pace. E allora la prima cosa da fare, per seminare
bene, è togliere le erbacce, togliere tutto quello che può ostacolare la
crescita del seme. In altre parole, se
vogliamo dire di sì alla pace, un sì vero, un sì convinto, la prima cosa è dire
una serie di no, deciso, a tutto ciò che ostacola il seme della pace.
Provate a pensare, siamo qui per condividere, per comunicare, e il
primo segno del nostro comunicare è la parola.
La parola è una realtà bellissima, ci esprimiamo, esprimiamo emozioni,
comunichiamo, condividiamo, però al tempo stesso può essere un’arma micidiale.
La parola, se usata male, è la prima cosa che divide. Un litigio, un conflitto,
anche tra gli Stati, nasce da una parola. Che poi sia detta, sia scritta, sia
mandata con un messaggio sms, stampata, importa di meno. La parola. Ecco
strappiamo definitivamente ogni parola di odio, ogni parola che crei fossati,
divisioni, distanze, prima erbaccia da buttare. Allo stesso modo, pensate allo sguardo. Siamo qui, possiamo guardarci
negli occhi, i nostri volti, dietro ognuno c’è una persona, ci sono delle
relazioni, una storia… quante volte, però lo sguardo è uno sguardo selettivo,
che ha già deciso che questi sono suoi amici e questi altri non lo saranno mai.
Perché? Oppure: perché tante cose le vogliamo vedere e altre invece non le
vogliamo neppure ascoltare e percepire? Anche qui, c’è un’altra erbaccia da
strappare per dissodare il terreno e seminare il buon seme della pace.
Migliorare lo sguardo, aprirlo, aprirlo a tutti, tutti devono entrare nel
nostro sguardo. Quasi come un immenso grandangolo che sa cogliere la bellezza
di ogni colore, di ogni dettaglio, Pensate poi ai nostri gesti, alle nostre azioni: dal mattino alla sera ci vengono
regalate occasioni di incontri, di avvicinamento, pace, di fratellanza, di
comprensione, di far uscire qualcuno da una brutta solitudine. I gesti però possono
creare anche differenza e distanza. C’è infatti chi non vede l’ora di
rincasare, sbarrare la porta, in maniera da lasciare fuori tutti quanti.
E allora qual è il seme che dobbiamo lanciare in positivo, per
dire sì alla pace? Dicevamo che il seme ci
viene suggerito della speranza. Attenzione, perché la speranza è una parola
un po’ ambivalente. C’è ad esempio la speranza a corto raggio, quella che
diciamo come espressione consolatoria: “Eh va bè, dai, tiriamo le somme, tutto
sommato c’è speranza, domani è un altro giorno…” Questa è la speranza piccola
piccola, è un semino che bastano due settimane di secco, e brucia. Qual è la speranza vera invece? La speranza
vera è quella che guarda avanti nel tempo, che sa progettare, che sa costruire.
Pensate quando siamo usciti dal secondo conflitto mondiale, questa cosa
spaventosa che ci ha toccato da vicino, ha toccato le nostre terre, le nostre
famiglie, la nostra gente. Davvero non c’era speranza. Uno si guardava attorno,
vedeva case diroccate, segni di bombardamenti, gente mutilata che era tornata
dalla guerra, il pensiero poi a chi non era neppure tornato, e rimaneva vivo in
una foto o in un ricordo. Eppure quello è stato un momento di grande speranza,
un momento in cui si progettava un mondo di speranza di cui si vedeva poco o
nulla, eppure era vivo e vegeto come se fosse stato già realizzato. Un po’ come
quando si va in montagna, ci si raduna al punto di partenza, uno guarda la
meta, è attratto dal fascino della cima, vede subito dove arrivare, ma è la
speranza che alimenta sia l’attrazione del punto di arrivo che l’intuizione
concreta del prossimo passo da compiere.
La speranza è
l’atteggiamento che ti fa guardare avanti, ma non astrattamente, ti fa
intravedere tutti i passi intermedi del cammino, ti fa vedere la strada. Se non
hai speranza, ti fermi. Charles Péguy, l’autore citato qui, paragona la speranza
a una bambina piccola. Sapete, nelle famiglie un po’ numerose, la bambina
piccola viene affidata alle più grandi. Il permesso di uscire viene dato alle
più grandi, a condizione che portino con loro la piccola: “Su, portate in giro
anche lei”. E le più grandi sono la giustizia, la carità, la fede, sono questi
grandi obiettivi dell’umanità. La speranza sembra essere la sorellina che le
sorelline si portano dietro. E invece Péguy,
questo autore molto fine ma anche ironico,
dice: “Ma a dir la verità, queste grandi
sorelle sono loro che a essere portate in giro dalla speranza”, perché se non speri, se non hai uno sguardo
più acuto, più approfondito di ciò che è scontato, se non progetti anche al di
là di te stesso, al di là di quello che vedi oggi, non costruisci né la pace né
la carità né la fede, non costruisci niente. È questa sorellina che ti porta
avanti, che ti guida nel cammino, e allora vogliamo proprio innanzi tutto
guardare avanti, trovare nella speranza il nostro slancio, la nostra
motivazione. Altrimenti non c’è rimedio, altrimenti rimane la
dis-perazione, assenza di speranza di chi vive blindato, prigioniero di se
stesso del proprio io, e non vede al di là dei confini del proprio
appartamento, e questo è un vivere da realmente appartato. Questa non è la
pace: “resto a casa mia perché mi sento in pace”; quella è la pace dei
cimiteri, quella in cui tutto è sempre in ordine, ma perché non c’è vita, non
c’è storia, non si muove niente, vai lì un mese dopo e trovi tutto com’era un
mese prima. La pace che desideriamo noi
invece è la pace che ci costa, che ci costerà qualche rischio, certamente
qualche fatica, ma è quella vera, che ci porta in alto. E allora facciamoci
motivare dalla speranza, che ci viene qui suggerita, raccomandata, ma
soprattutto iniziamo un cammino di speranza nella direzione della pace.
2) L'ALBERO DELLA PACE.
Se siamo stati buoni
seminatori, animati dalla speranza, se abbiamo saputo annaffiare, concimare
questo seme - lo si concima riunendosi insieme, approfondendo, non rimanendo
soltanto alla superficie delle cose - ecco che, poco per volta, cresce un
albero, un albero speciale, un albero le cui fronde sono chiamate a coprire
tutto il mondo. E’ un albero speciale perché non si vede bene il colore di tutte le
sue foglie, forse ha proprio tutti i colori, ed un albero che dà fiori e frutti
in tutte le stagioni, perché ogni stagione della vita, ogni stagione
dell’umanità, ogni stagione del cammino dei popoli ha bisogno di nutrirsi, di
trovare ristoro all’ombra di questo albero.
E come ogni buon albero
ha anzitutto radici profonde: se vogliamo costruire la pace, ovvero far
crescere quest’albero, non dobbiamo dimenticare le radici, la storia. C’è qualcuno che ormai
sta dimenticando la seconda guerra mondiale, qualcun’altro addirittura sta
dicendo: “Ma no, lo sterminio degli ebrei non è propriamente avvenuto,
ridimensioniamo le cose”. Attenzione, le radici sono fondamentali per un
albero, studiamola ancora la storia, e studiamola bene in tutti i suoi aspetti.
Poi c’è un bel tronco
robusto, unico, perché unico è lo sforzo della pace, quella che innalza la
crescita dell’umanità verso il Cielo.
E poi ci sono tanti rami,
un albero è bello quando è bello ramificato, e ogni ramo porta il nostro nome,
ogni ramo può essere un aspetto dell’umanità che cresce, ogni gruppo, ogni
nostra associazione, ogni nostro stile di vita con cui davvero ci orientiamo
verso la pace. Poco fa abbiamo ascoltato tante voci, voci molto diverse, di
persone credenti, non credenti, di orientamento molto diverso, dal punto di
vista religioso, sociale, professionale, ma tutte unificate dalla volontà di
edificare il grande bene della pace. Oggi il discorso di papa Francesco da cui
siamo partiti, ha un titolo molto impegnativo: la buona politica per costruire la pace. Polis vuol dire città;
costruire una città di pace significa vivere anzitutto la responsabilità per la
città. Responsabilità, che parola bella, avere l’abilità di rispondere ai bisogni,
alle domande, ai valori, che ci stanno davanti; perché la responsabilità per la
città è di tutti, non solo da parte di alcuni e a favore di alcuni altri, ed è
il modo bello per ramificare questo albero sotto cui tutti possono trovare
ristoro. C’è però una differenza: che i rami di un albero non fanno fatica a
stare attaccati al tronco perché nascono, spuntano, spontaneamente. Invece noi siamo rami un po’ speciali, che
dobbiamo volere stare attaccati al tronco, ci stiamo con libertà, ci stiamo per
mezzo delle nostre decisioni quotidiane, o per mezzo delle nostre decisioni di
vita. Ci stiamo, inseriti in quest’albero, se desideriamo continuamente farlo
crescere.
E poi si sa, un albero è
una realtà bella, certamente, ma è una realtà che gustiamo in modo particolare
a partire dai suoi frutti. Come facciamo a sapere se un albero è buono? Se i
suoi frutti sono buoni, sono gustosi, sono al punto giusto, sono maturi. Ecco,
allora sforziamoci adesso di immaginare frutti veri di pace. La pace è talmente grande
che qualcuno dice comprende tutti i beni della terra. Si ha la pace quando nessuno è escluso, ciascuno è in comunione con gli
altri, col creato, con Dio, quando cioè vive una pienezza. Ecco,
sforziamoci di costruire quest’albero e di condividere questo frutto. Che bello se un giorno potessimo porgere la
mano, e dare un frutto di pace agli altri, sarebbe un modo per dare contenuto
ai legami: ti dono la pace di dieci minuti del mio tempo, ti dono la pace
attraverso una visita perché sei solo, ti dono la pace della mia vicinanza
perché sei amato. Questi sono i frutti buoni, gustosi, quelli che tutti possono
comprendere, anche se si parla un’altra lingua; se ci sono questi frutti, tutti
davvero sono in grado di apprezzarli e a loro volta diventare coltivatori del vero
grande albero della pace.
3) COLTIVATORI DI PACE.
Divenire coltivatori di
pace.
Questa è la missione che cerchiamo di condividere, a partire da questo nostro
cammino comune. Proviamo a dirlo con un’altra parola. Coltivare la pace vuol dire creare una cultura di pace. E una
cultura è fatta di tanti elementi, è la mentalità, è quello che sta dietro le
nostre decisioni quotidiane, i nostri modi di vedere, i nostri punti di vista,
le nostre scelte. Una cultura della pace anzitutto ha bisogno di buone idee.
Vedete, le buone idee, come tutti i doni spirituali, quando uno le comunica ad
altri, non le perde. Se io possiedo un oggetto materiale e te lo do, lo perdo
io. Se ho una buona idea, e la condivido, siamo in tanti ad averla. Anzi,
magari migliora già nel dirla, e a vostra volta voi nell’ascoltarla a vostra
volta la migliorate. Ecco, creare
cultura è creare una mentalità, un modo di vedere le cose, che poi diventa
stile di vita. Creare non solo buone idee, ma buone prassi. Una cultura
della pace che si nutre - l’abbiamo ascoltato - di testimonianze, di esempi dal
vivo, che parlano molto di più degli altri linguaggi, di testimonianze, di
quelle condivisioni, che anche noi siamo chiamati a portare avanti nei nostri
ambienti. Ma vorrei terminare con le parole del messaggio per la giornata della
pace, l’invito forte di papa Francesco alla carità. Dice: “Ogni cristiano è
chiamato a questa carità nel modo della sua vocazione, e secondo le sue
possibilità d’incidenza nella polis e la carità, (carità da caris dono, vuol dire spendere la vita per gli altri)
unisce tutti quelli che vogliono operare per il bene della famiglia umana,
praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico, per il
bene della città, della polis: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco,
la sincerità, l’onestà, la fedeltà”. Una nuova cultura per un nuovo mondo di
pace. Detto con altre parole ancora, nella forma della beatitudine, beato,
fortunato, felice, che non è un modo di guardare solo alla beatitudine celeste,
ma anche a quella terrestre; vi leggo queste frasi che sono nel messaggio di
papa Francesco, ma che prende a prestito da un famoso vietnamita
François-Xavier Nguyen Van Thuan, che ha sofferto lunghi anni di lager per la
sua fede: “Beato il cittadino che ha un’alta consapevolezza e una profonda
coscienza del suo ruolo. Beato chi rispecchia la credibilità. Beato chi lavora
per il bene comune, non per i propri interessi. Beato chi si mantiene
fedelmente coerente. Beato chi realizza unità. Beato chi è impegnato nella
realizzazione di un cambiamento radicale. Beato chi sa ascoltare. Beato chi non
ha paura”, infine; paura che tante volte è il grande freno delle nostre azioni
e anche alla coltivazione della pace.
Ma, dato che abbiamo detto che è un cammino, ed è stato un cammino
comune, quindi un impegno reciproco, e non solo, uno scambiarci buoni spunti e
buone idee, vogliamo concludere con un gesto significativo, ed è la consegna
non di un seme, come magari pensavamo, ma i nostri organizzatori sono stati
così bravi che ci consegneranno niente meno che un piccolo bulbo. Sono bulbi
diversi, quindi scoprirete a che tipo di fiore danno origine, che siamo
invitati davvero a coltivare, così non ci dimenticheremo di questo giorno, di
questo pomeriggio. Ed il bulbo è un vegetale interessante, perché non solo
potete piantarlo dappertutto, proprio come la pace, ma è qualcosa che scompare
nel terreno: quando lo piantate non lo vedete più. Eppure, quando arriva la
stagione giusta, improvvisamente spunta e il suo fiore è più grande di tutte le
altre erbette che lo circondano. Quindi
mi pare molto bello, il segno del coraggio dello scomparire, anche sottoterra,
del lavorare anche nell’ombra, anche quando non abbiamo nessun riconoscimento,
o non riceviamo alcun grazie, sapendo che poi porterà frutto, se non oggi, lo
porterà domani. Seminiamo, poi si raccoglierà, un giorno. E’ un compito
infinito, quello che di affida un semplice bulbo, e che ci chiede qualcosa
volta anche pagare il prezzo della pace, che ha un valore così grande, così
immenso! Vale davvero la pena di sperare, pazientare, faticare un po’ ogni
giorno per la pace, diventare coltivatori di pace, in una parola! Se mi
permettete, però, coltivatori diretti, non quelli che affidano ad altri il
compito di edificare la pace, ma che lo vivono in prima persona, chinandosi sul
suolo, lavorandolo, coltivando appunto…
Daverio, 12 gennaio 2019
(trascrizione della registrazione a cura di Maria Cecilia Monti , rivista da
don Eros Monti)
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