Carlo Maria Martini è morto oggi pomeriggio: è stato il Vescovo del dialogo.

Il Card. Carlo Maria Martini
Carlo Maria Martini è morto oggi pomeriggio: è stato il Vescovo del Dialogo.
 
Lo ricordano così, quasi senza eccezione, tutti i media e così voglio ricordarlo anch'io:
Vescovo del Dialogo.
Prima di tutto perché lo è stato per davvero, senza retorica e in modo eccezionale, col cuore e con l’intelligenza, verso cristiani e non, credenti o atei che fossero. E fanno bene, perché il dialogo e la materia prima, anzi l’armatura stessa che sorregge i ponti, e Dio solo sa di quanti ponti oggi la nostra umanità fragile ha bisogno. Di quanti ponti abbiamo bisogno noi occidentali per superare le fratture, spesso profonde ed ampie, che la crisi economica sta creando tra i popoli e, nelle singole nazioni, tra i diversi strati sociali. Di quanti ponti hanno bisogno i popoli in guerra, mentre noi forniamo loro armi, di quanti ponti hanno bisogno i poveri, mentre noi creiamo steccati, ergiamo barriere, inventiamo i respingimenti,  esasperando le fratture. Fratture cresciute anche per la crisi economica che ci attanaglia, ma nate soprattutto dall’egoismo che è il vero grande ostacolo al dialogo.
Il dialogo è un reciproco scambio di doni, di emozioni, di ragioni, di pensieri, di sogni, soprattutto quei “sogni grandi “– scriveva il card. Martini- che rappresentano la nostra percezione del progetto di Dio ancora più grande “ .
Dialogo è parlarsi,  è il Verbo stesso, è quindi Amore, Caritas.
 
Pensavo queste cose mentre navigando tra i ricordi, gli stimoli della rete, l’archivio del sito www.chiesadimilano.it , la nostalgia mi hanno portato a cercare tra i discorsi che il Card. Martini ( come è tradizione per i vescovi di Milano ) ha indirizzato ogni anno alla città e alla diocesi in occasione alla vigilia della  festività di S. Ambrogio. Ne ho selezionato uno, quello del  6 dicembre 1996 e ve lo ripropongo integralmente. Nel rileggerlo mi ha colpito la straordinaria affinità  tra quello che il Card. Martini scriveva allora e ciò di cui abbiamo bisogno ora. Sentite questo passaggio e vi verrà voglia di leggere tutto : Vorrei che le riflessioni ci aiutassero a non lasciarci imprigionare dalle pesantezze del presente e a diventare più capaci di guardare al futuro dell'uomo e al futuro di Dio. Non a caso ho intitolato il mio discorso:

Alla fine del millennio, lasciateci sognare! “
 
 Anche noi oggi abbiamo bisogno di trovare nei "valori veri"  e in "grandi sogni" lo slancio ideale per superare difficoltà che paiono strangolarci: 
Grazie indimenticabile Arcivescovo per avercene indicato la strada !
 
 
 
 

ALLA FINE DEL MILLENNIO, LASCIATECI SOGNARE!  


Discorso per la festa di S. Ambrogio

 Carlo Maria Martini, Vescovo

Milano, 6 dicembre 1996


Sant'Ambrogio, nel suo scritto su Giuseppe, parlando delle reazioni di Giacobbe al secondo sogno del figlio, si esprime cosi: "Il patriarca si guardò bene, dunque, dal non prestar fede a un sogno tanto grande (non ergo tanto somnio patriarcha non credidit), perché egli profetizzava con una duplice predizione due realtà: rendeva cioè presente la persona del giusto (Gesù che doveva venire) e insieme la persona del popolo (a cui il giusto avrebbe offerto la salvezza)" (ivi 3,9, in Opera omnia 3, 1982, p 349)

Anche a noi mi pare venga detto, alla fine del millennio, di non escludere del tutto dalla nostra interpretazione del tempo in cui viviamo quei "sogni grandi" che rappresentano la nostra percezione del progetto di Dio ancora più grande, proclamato nella lettura del primo capitolo della lettera agli Efesini, che riguarda Gesù e il suo popolo. In Lui siamo stati scelti, in Lui abbiamo la redenzione, per mezzo di Lui Dio conduce la storia al suo compimento, riunendo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra sotto un unico capo (cf Ef 1,4. 7.10)
A questo "sognare in grande", a questo saper guardare con mente aperta al futuro di Dio e dell'uomo ci esorta oggi la figura di sant'Ambrogio che è stato un grande interprete dei disegni di Dio per il suo tempo. Desidero qui esprimere tutta la mia gratitudine a Sua Grazia l'Arcivescovo Carey non solo perché, in spirito di comunione ecumenica, ha voluto unirsi a noi per iniziare le celebrazioni del decimosesto centenario della morte di Ambrogio, ma pure per le parole con cui or ora ha evocato il senso e la portata del messaggio di Ambrogio per la sua epoca e per una leadership cristiana nel quadro delle società secolari di oggi.
A Lei, Arcivescovo di Canterbury, esprimo la comunione e 1'affetto della Chiesa di Milano ricambiando gli auguri per una celebrazione fruttuosa del decimoquarto anniversario della venuta di sant'Agostino in Inghilterra e dell'opera di san Colombano. Attraverso queste grandi figure le nostre Chiese rileggono il loro passato di grazia e trovano forza per andare incontro a quella piena comunione che il prossimo millennio è destinato a restaurare.

Voglio anche attestare la gratitudine mia e della Chiesa ambrosiana al Papa Giovanni Paolo II per aver voluto scriverci, in occasione del centenario, la Lettera Apostolica Operam diem, ricordando che Ambrogio fuit... estque adhuc universae Ecclesiae, "fu...ed è tuttora un dono per la Chiesa intera" (n. 1) e che "si staglia sullo sfondo delle tormentate vicende del suo tempo come figura di straordinario rilievo, il cui influsso, valicati i secoli, permane vivo ancora oggi" (n. 2).
Con tale fiducia espressa dal Papa nell'impulso che Ambrogio può dare alla società attuale e nell'impegno a ricercare un orientamento per il nostro tempo (impegno che condivido con il mio fratello Arcivescovo di Canterbury e con i responsabili delle chiese cristiane), desidero dedicare qualche riflessione al sogno e al progetto di Ambrogio per la sua Chiesa e la sua città. Vorrei che le riflessioni ci aiutassero a non lasciarci imprigionare dalle pesantezze del presente e a diventare più capaci di guardare al futuro dell'uomo e al futuro di Dio. Non a caso ho intitolato il mio discorso: Alla fine del millennio, lasciateci sognare!

1. IL SOGNO Dl AMBROGIO PER IL SUO TEMPO

Quando, nel 374, Ambrogio fu eletto Vescovo di Milano, capitale dell'Impero, lo stato romano presentava chiari segni di decadenza. L'Impero era ormai senz'anima e pochi credevano ancora negli ideali che avevano animato l'ascesa di Roma. La stessa Chiesa si presentava divisa, travagliata da una crisi, quella ariana, che sembrava non dovesse più finire. E Ambrogio, pur concependo Chiesa e Stato come due realtà distinte, sapeva  -quale parte irrinunciabile del suo ministero episcopale- di dover essere coscienza e voce critica della storia in cui la Chiesa cammina.

Come scrive il Papa nella sua Lettera, egli sentiva che "nella società romana in disfacimento, non più sorretta dalle antiche tradizioni, era... necessario ricostruire un tessuto morale e sociale che colmasse il pericoloso vuoto di valori che si era venuto creando. Il Vescovo di Milano volle dar risposta a queste gravi esigenze, non operando soltanto all'interno della comunità ecclesiale, ma allargando lo sguardo anche ai problemi posti dal risanamento globale della società. Consapevole della forza rinnovatrice del Vangelo, vi attinse concreti e forti ideali di vita e li propose ai suoi fedeli, perché ne nutrissero la propria esistenza e facessero cosi emergere, a servizio di tutti, autentici valori umani e sociali" (n. 7)

Possiamo dunque affermare che Ambrogio si trovava di fronte a una svolta epocale, non tanto dal punto di vista cronologico, bensì da quello del giudizio sui valori. (Del resto neppure per noi la data del duemila va concepita in sé come svolta storica: il suo senso va letto non nella magia dei numeri, ma nell'interpretazione che riusciamo a dare del nostro tempo, come Ambrogio è riuscito a darla del suo). Si trattava allora di decidere se la salvezza della società consisteva nel ritorno ai valori tradizionali del paganesimo, a cui tendevano non pochi spiriti nobili dell'epoca, o nell'inserzione delle forti virtù cristiane in quanto rimaneva di sano del tronco della romanità.

Ambrogio aveva le carte in regola per quanto riguarda l'appartenenza al tronco sano della tradizione classica. Aveva però occhi penetranti per vedere che, senza un innesto coraggioso, gli antichi valori si sarebbero disciolti nel clima di indifferenza, di consumismo e di conflittualità che da decenni affiggeva le classi dominanti della società romana.
L'occhio affinato dalla fede gli permetteva di capire che tale innesto sarebbe avvenuto solo se la parte cristiana della società fosse stata in grado di esprimere con energia, in tutti gli ambiti della vita familiare, sociale e civile quei modi di pensare e di agire che mostravano la novità e la forza delle beatitudini evangeliche e la potenza paradossale della croce.

Il suo progetto si basava sulla fiducia che l'immissione della forza delle beatitudini potesse ridare vigore e nerbo a quegli atteggiamenti nobili della romanità che stavano scomparendo nella mollezza e nello scetticismo. Egli ha avuto il dono di intuire che pure per una grande metropoli esisteva la possibilità di un incontro tra la saggezza e la probità romana e la saggezza della croce. Il suo è stato un atto di coraggio civile e insieme teologico. Rifiutando di considerare la saggezza della croce come aliena dai processi della storia, capace solo di suscitare gli eroismi dei martiri o le prodezze ascetiche dei monaci del deserto, Ambrogio ha creduto che, facendo lievitare una comunità cristiana con i fermenti evangelici, essa avrebbe fermentato anche la cultura e la società.

Questo è il sogno di Ambrogio, il progetto di Chiesa che traspare dai suoi gesti e dai suoi scritti. Sarebbe bello poterlo mostrare, se ne avessimo il tempo, affidandoci in particolare alla sua corrispondenza con i Vescovi contemporanei, dove esprime chiaramente ciò che era nel suo cuore di Vescovo. Occorrerebbe partire dalla lettera di Basilio di Cesarea ad Ambrogio dell'anno 375, poco dopo 1'elezione episcopale a Milano. Basilio gli traccia un programma di episcopato alla cui luce è possibile interpretare gli atti seguenti del nostro grande Patrono.

"Dio sceglie in ogni generazione coloro che gli sono graditi... Ora ha tratto alla cura del gregge di Cristo un uomo della città imperiale cui era stato affidato il governo di tutto il popolo, una persona di animo elevato, ammirata da tutti gli uomini per la nobiltà della stirpe, per lo splendore dei beni e per il vigore dell'eloquenza... Fatti animo, dunque, uomo di Dio, perché non da parte di uomini hai ricevuto o imparato il Vangelo di Cristo, ma il Signore stesso ti ha preso fra i giudici della terra per collocarti sulla cattedra degli apostoli; combatti la buona battaglia, risana le malattie del popolo... riprendi le antiche orme dei Padri" ( Lettera 197 di Basilio di Cesarea, in Opera omnia 24/1, 1990, p. 51s).
 
Dovremmo poi commentare la lettera di Ambrogio a Vigilio, da poco chiamato alla cattedra episcopale di Trento 1, la lettera al Vescovo Costanzo2 e quella al Vescovo Marcello3 . In esse comunicava la sua esperienza e quindi quanto deve stare anzitutto a cuore a un responsabile di una chiesa locale.

Possiamo in sintesi affermare che il suo progetto si ispira in primo luogo alla contemplazione di Cristo Signore  -Colui che è tutto per noi- ; da questa contemplazione ha tratto il sogno di una Chiesa libera, aperta, accogliente, dinamica, presente nella storia, forte nella tribolazione, vicina ai dolori della gente, promotrice della giustizia, attenta ai poveri e agli stranieri, non preoccupata della sua minoranza numerica, ma fiduciosa nell'efficacia delle beatitudini per il risanamento sociale e politico del proprio tempo.
 
E' la Chiesa che Agostino ha incontrato a Milano e che lo ha convinto della bellezza e della praticabilità del cristianesimo. Ricorda il Papa nella sua lettera che Agostino "ben presto sperimentò la concretezza e il fascino della vita della chiesa di Milano: 'Vedevo la Chiesa piena, e in essa l'uno avanzare in un modo, l'altro in un altro' ricorderà con ammirazione molti anni dopo" (n. 9). "Da questa pienezza ? commenta il cardinale Biffi ? egli è stato a poco a poco persuaso; a contatto con questa 'pienezza' egli ha sentito a poco a poco svanire ogni difficoltà e sgrovigliarsi ogni complicazione interiore" (G. Biffi, (Conversione di Agostino e vita di una Chiesa, 1987, citato da C. Pasini, Ambrogio di Milano: azione e pensiero di un vescovo, 1996, p. 138).

II. PER UN PROGETTO DI CHIESA DEL NOSTRO TEMPO

 
Nel discorso in morte del fratello Satiro, Ambrogio confessa che con il fratello condivideva le preoccupazioni, i progetti, le ansie per la comunità cristiana che si stava edificando nella città di Milano: "Tu approvavi le mie decisioni, condividevi le mie inquietudini, allontanavi le mie angustie, cacciavi da me la tristezza; tu eri il sostegno delle mie azioni, il difensore dei miei pensieri; tu infine eri il solo in cui le preoccupazioni domestiche avessero posa e trovassero sollievo le responsabilità pubbliche" (ivi I, 20, in Opera omnia 18, 1985, p. 39).
 
Ambrogio descrive quindi la sua giornata piena di decisioni, inquietudini, angustie, tristezza, azioni, pensieri, preoccupazioni e responsabilità. E' la tipica giornata di un Vescovo e anche di ogni responsabile civile e politico. L'esperienza delle Autorità qui presenti potrebbe confermarlo. Perciò occorre il sostegno, in ogni impegno pubblico, di un sogno, un ideale, un progetto, un'utopia su cui misurare il presente e graduare gli interventi possibili senza lasciarsi soffocare dalle piccole urgenze quotidiane o fuorviare dai clamori o dalle blandizie dei petulanti di turno.

Occorre anzitutto un progetto per le Chiese in Europa. Recentemente, alla fine del IX Simposio dei Vescovi Europei (23-27 ottobre 1996), è stato chiesto al Presidente cardinale Miroslav Vlk, Arcivescovo di Praga quale immagine di Chiesa europea prevedesse nei prossimi decenni: la sua risposta delineava una Chiesa minoritaria, autorevole, con forte identità.

Nel corso del Simposio sono state sottolineate ulteriori qualifiche: una Chiesa sinodale all'interno, ecumenica con le altre confessioni e religioni, dialogica rispetto alla società civile e istituzionale (Cfr. Europa della fede e della Democrazia in Il Regno, 15 novembre 1996, n. 20, p.577). Sono elementi indubbiamente significativi.

La stessa Chiesa italiana si sta misurando con l'idea di progetto. Lo ha fatto in particolare nell'ultima Assemblea Generale di Collevalenza (11-14 novembre 1996), dove è emersa la necessità che "la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo, nel duplice senso di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, si sviluppi attraverso un'azione consapevole e mirata che, oltre alla fondamentale e irrinunciabile via della prassi e della testimonianza, preveda ? anche se in forme e gradi diversificati ? il momento indispensabile della riflessione, del discernimento, della progettazione, della verifica" (Dalla Sintesi dei lavori di gruppo a cura di S.E. Mons. Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Genova).

Tale idea di progetto può essere feconda se misurata primariamente con l'unico vero progetto sul mondo che è il progetto di Dio, esposto nella prima pagina della lettera agli Efesini, che abbiamo ascoltato. Esso non si esplica compiutamente in questo mondo, ma guarda all'eternità di Dio e alla pienezza della manifestazione del Signore alla fine dei tempi. Tale progetto inoltre va verificato sul "discorso della croce" di cui parla san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (I Cor I, 18?25). Il "discorso della croce" esprime infatti la metodologia di ogni agire cristiano ed è fondato sul "valore" di ciò che sembra non avere valore né efficienza: la sconfitta, la perdita, l'ingiustizia subita. In positivo il "discorso della croce" è espresso dalle beatitudini evangeliche (Mt 5, 3?12) e da quelle quindici caratteristiche della carità con cui san Paolo definisce l'agire cristiano come "paziente, benigno, non invidioso, non vanitoso, ecc." (1 Cor 13, 4?6). Un agire che non bada all'efficienza del fare, bensì alla qualità delle relazioni, ispirate dall'esempio di Gesù. Solo un progetto cosi merita il nome di progetto cristiano e può essere confrontato con il coraggioso progetto di Ambrogio.

La Chiesa italiana si era posta più volte dopo il Concilio, in particolare a partire dal Convegno del 1976 su Evagelizzazione e promozione umana, la domanda sulle sue responsabilità per una società in preda a fenomeni di rapida mutazione e di innegabile degrado. Un momento particolarmente felice di sintesi tra preoccupazione per la purezza del vangelo e per le sorti della nazione aveva trovato espressione nel documento del 23 ottobre 1981 dal titolo La Chiesa italiana e le prospettive del paese, scritto "con una coerente ispirazione evangelica. Dal Vangelo, infatti, e da una tensione permanente verso il Signore Gesù Cristo, i cristiani traggono il lume e il sostegno essenziale per le loro attività nel paese e per interpretarne la realtà" (ivi, n. I ).

Non è mio compito dilungarmi su un tema che ha trovato nell'ultima Assemblea dei Vescovi italiani un significativo approfondimento. Mi sembra in ogni caso di cogliere nella Chiesa italiana, nel quadro del decennio degli anni novanta su "Evangelizzazione e testimonianza della carità", una più viva coscienza di come, accanto alla carità spirituale offerta dal pane del Vangelo e a quella materiale offerta dall'aiuto per il pane, il tetto e il lavoro, v'è oggi un particolare bisogno della carità "culturale"; intendo dire di una attenzione amorevole ai fatti di cultura, ossia ai valori' significati, linguaggi, modi espressivi della nostra società e al loro collegamento con la trasmissione del messaggio cristiano. Perciò la Chiesa italiana ha deciso di dedicare maggiore tempo ed energia a quei nodi del pensiero e dell'azione in cui il Vangelo tocca o è toccato dagli atteggiamenti, dai modi di pensare e dalle correnti culturali contemporanee, promuovendo un processo dinamico e corale di studio, di riflessione, di dialogo e di azione in vista della evangelizzazione delle culture e dell'inculturazione o transculturazione del vangelo; in altre parole, la Chiesa ha deciso di scommettere, come un tempo Ambrogio, sulla possibilità che il Vangelo vissuto e pensato sia germe e fermento di cultura.

Per questo la Chiesa in Italia  - ciò accade in tutti i luoghi dove è proclamato il Vangelo -
avverte il compito di offrire percorsi culturali che formino persone non solo sensibili alla trascendenza e in ascolto della Parola, ma insieme capaci di riflessione critica e aperte al dialogo culturale.

Si colloca in tale contesto il compito delle comunità cristiane di proporre e garantire dei percorsi scolastici (dalla scuola materna alla formazione professionale) connotati da una precisa identità educativa che, senza legittimare nessuna chiusura confessionale e nessun isolamento culturale, deve per tutti essere una proposta di dialogo e di confronto per un reale arricchimento dell'intero sistema pubblico scolastico caratterizzato dall'autonomia, dall'integrazione delle diverse iniziative educative e dall'effettiva parità giuridica ed economica tra tutte le scuole che offrono un pubblico servizio (statali e non statali).

La Chiesa intende fare questo per il bene dell'intera cittadinanza la quale ha interesse, per un futuro armonico e integrato, ad ascoltare e sostenere ogni vera proposta educativa. Dal coinvolgimento autorevole di più posizioni, il bene comune guadagna infatti una concretezza di profilo formativo, in una dialettica costruttiva tra le legittime differenze.

La nostra società non ha alternative alla tensione verso l'integrazione organica di tutti i soggetti educativi, a meno di ridursi a una contiguità di universi incomunicabili. I cristiani su tale convinzione hanno costruito da sempre la consapevolezza del dover essere presenti con la loro precisa identità nella città dell'uomo, quale forza critica e profetica.

III. IL SOGNO Dl UNA CHIESA FERMENTO DELLA SOClETA'

La società attuale europea ed occidentale si costruisce, meglio si esprime - talora in maniera costruttiva, talora in maniera distruttiva- non seguendo una visione organica, ispirandosi a un vero e proprio progetto, ma dando valore ad alcune intuizioni di fondo connesse con l'idea della libertà dell'individuo, il cui solo limite sarebbe il rispetto delle libertà altrui. Diceva Sua Ecc.za Mons. Lehmann, Arcivescovo di Magonza, nell'ultimo Simposio dei Vescovi europei, che la storia della modernità (illuminismo e liberalismo) ci consegna una società in cui il pubblico garantisce le libertà e il privato sceglie le opzioni (compresa quella religiosa). Si opera tuttavia la rimozione della questione della verità e ne deriva un pluralismo che minaccia continuamente di infrangere i confini dell'autodistruzione (cfr sintesi a cura di L. Prezzi in Il Regno I 5 novembre 1996, n. 20, p.578).

 Sarebbe facile naturalmente allargare il discorso servendosi delle numerose indagini sociologiche e comportamentali che descrivono il nostro vissuto di società, con accenti rassegnati o catastrofici o addirittura apocalittici, quasi mai con accenti di ottimismo e di fiducia.

Non saranno tuttavia le analisi pessimistiche a migliorare il mondo e nemmeno basterà un accorato richiamo ai valori o alla legalità per far andare meglio le cose. Dobbiamo piuttosto, dal momento che i nostri difetti li conosciamo bene, acquisire una visuale positiva, un sogno di futuro, che ci permetta di affrontare con energia e coraggio il passaggio di millennio.

 L'istanza contenuta nel titolo del mio discorso Alla fine del millennio, lasciateci sognare! vuole appunto esprimere la speranza che può venire da una visione di futuro che lasci spazio alla potenza di Dio e alla forza costruttiva delle beatitudini evangeliche, non da un ripiegamento ossessivo e analitico sui nostri mali. Si chiede dunque a tutte le persone e i gruppi di buona volontà, in Europa e in Italia, di ispirarsi a progetti positivi; di guardare all'uomo saggio del Vangelo che, fidandosi delle parole del discorso della Montagna, le mette in pratica e costruisce una casa che resiste a tutti gli uragani (M? 7,24?25); di dare spazio allo Spirito il quale farà sì che negli ''ultimi giorni" ? lo sono anche i nostri ? "i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni" (At 2, 17).

Mi viene in mente quel sogno di Chiesa capace di essere fermento di una società che espressi il 10 febbraio l98l, a un anno dal mio ingresso in Diocesi, e che continua ad ispirarmi:
- una Chiesa pienamente sottomessa alla Parola di Dio, nutrita e liberata da questa Parola
- una Chiesa che mette l'Eucaristia al centro della sua vita, che contempla il suo Signore, che compie tutto quanto fa "in memoria di Lui" e modellandosi sulla Sua capacità di dono;
- una Chiesa che non tema di utilizzare strutture e mezzi umani, ma che se ne serve e non ne diviene serva;
- una Chiesa che desidera parlare al mondo di oggi, alla cultura, alle diverse civiltà, con la parola semplice del Vangelo;
- una Chiesa che parla più con i fatti che con le parole; che non dice se non parole che partano dai fatti e si appoggino ai fatti;
- una Chiesa attenta ai segni della presenza dello Spirito nei nostri tempi, ovunque si manifestino;
-  una Chiesa consapevole del cammino arduo e difficile di molta gente oggi, delle sofferenze quasi insopportabili di tanta parte dell'umanità, sinceramente partecipe delle pene di tutti e desiderosa di consolare;
- una Chiesa che porta la parola liberatrice e incoraggiante dell'Evangelo a coloro che sono gravati da pesanti fardelli;
- una Chiesa capace di scoprire i nuovi poveri e non troppo preoccupata di sbagliare nello sforzo di aiutarli in maniera creativa;
- una Chiesa che non privilegia nessuna categoria, né antica né nuova, che accoglie ugualmente giovani e anziani, che educa e forma tutti i suoi figli alla fede e alla carità e desidera valorizzare tutti i servizi e ministeri nella unità della comunione;
- una Chiesa umile di cuore, unita e compatta nella sua disciplina, in cui Dio solo ha il primato;
- una Chiesa che opera un paziente discernimento, valutando con oggettività e realismo il suo rapporto con il mondo, con la società di oggi; che spinge alla partecipazione attiva e alla presenza responsabile, con rispetto e deferenza verso le istituzioni, ma che ricorda bene la parola di Pietro: "E' meglio obbedire a Dio che agli uomini" (At 4,19).

E' il sogno che ho delineato nella lettera pastorale Ripartiamo da Dio e in Parlo al tuo cuore dove ho offerto una Regola di vita del cristiano ambrosiano.
Dal sogno di una Chiesa così e della sua capacità di servire la società con tutti i suoi problemi nasce l'invito a lasciarci ancora sognare
Lasciateci sognare! Lasciateci guardare oltre alle fatiche di ogni giorno! Lasciateci prendere ispirazione da grandi ideali! Lasciateci contemplare con scioltezza le figure che, come Ambrogio, hanno segnato un passaggio di epoca non con imprese militari o con riforme imposte dall'alto, bensì valorizzando la vita quotidiana della gente, insegnando che la forza e il regno di Dio sono già in mezzo a noi e che basta aprire gli occhi e il cuore per vedere la salvezza di Dio all'opera.

La forza di Dio è in mezzo a noi nella capacità di accogliere l'esistenza come dono, di sperimentare la verità delle beatitudini evangeliche, di leggere nelle stesse avversità un disegno di amore, di sentire che il discorso della croce rovescia le opinioni correnti, vince le paure ancestrali e permette di accedere a una nuova comprensione della vita e della morte.

Il nostro sogno non sarà allora evasione irresponsabile né fuga dalle fatiche quotidiane, ma apertura di orizzonti, luogo di nuova creatività, fonte di accoglienza e di dialogo. Di ciò anche la città di Milano ha grande bisogno per essere degna di quella eredità di civiltà e di fede di cui celebriamo, a partire da oggi, il decimosesto centenario.

 
 

NOTE:

1.Virgilio aveva chiesto ad Ambrogio dei "criteri per il suo insegnamento", essendo stato da poco chiamato all'episcopato. Risponde Ambrogio (Lettera 62 probabilmente del 385, cfr. Opera omnia 20, 1988, p. 147ss): "Siccome hai edificato te stesso, com'era giusto, visto che sei stato ritenuto degno di cosi sublime ministero, sembra che ti debbano essere indicati i modi per edificare anche gli altri" (n. 1). Gli dà poi tre indicazioni su argomenti che a prima vista sembrano riguardare questioni di carattere pratico. Gli chiede di vigilare perché non siano defraudati i lavoratori e di adoperarsi perché sia abolito il prestito a interesse (cfr. n. 3). Lo invita a insegnare un'accoglienza amorevole verso gli ospiti ("non ricchi doni, ma cortesie spontanee, piene di pace e di opportuna simpatia, sentimenti di bontà", n. 6). Lo impegna infine ad opporsi al pericolo costituito dai matrimoni contratti dai cristiani con i pagani (cfr n. 7). E a proposito di quest'ultimo argomento si sofferma a lungo sulla vicenda di Sansone (nove pagine su undici!). Al di là delle peculiarità dello stile epistolare del tempo, leggiamo in questa lettera che Ambrogio, nel suo ministero di vescovo, si è preoccupato del risanamento della società del suo tempo per immettere nell'antica tradizione romana il lievito dell'insegnamento evangelico. In tal modo sapeva di gettare nuove basi per la ricostruzione del tessuto sociale in disfacimento". Il progetto di Chiesa di Ambrogio comprende perciò elementi di un organico piano di restaurazione morale e sociale. A Vigilio Ambrogio trasmette la sua esperienza di pastore nella concretezza della sua incidenza sul vissuto della gente e anche nella radice imprescindibile della Parola personalmente ruminata e distribuita ai fedeli.
 
2.Ambrogio scrive a Costanzo (Lettera 36 in Opera omnia 20, 1988, p. 22ss):
"Hai assunto l'ufficio episcopale e, sedendo sulla poppa della Chiesa, guidi la nave contro i flutti. Tieni saldo il timone della fede, perché le pericolose procelle di questo mondo non possano turbarti. Il mare senza dubbio è grande ed esteso, ma non temere, perché 'Egli l'ha fondata sui mari e l'ha stabilita sui fiumi'. Perciò, non senza ragione, la Chiesa del Signore, per così dire costruita sulla pietra dell'apostolo, rimane immobile tra i tanti marosi del mondo e sul suo fondamento inconcusso resiste senza tregua alla violenza del mare che infuria... Il mare è la Scrittura divina... Raccogli l'acqua di Cristo, quella che loda il Signore...l tuoi discorsi siano come acqua che scorre copiosamente, siano puri e limpidi... pieni di discernimento..." (n. 1).
I suggerimenti di Ambrogio vengono ancora una volta dalla sua esperienza, dal suo modo di fare Chiesa.

 3.Il vescovo Marcello gli aveva chiesto di fare da arbitro in una controversia giudiziaria in cui era implicato lui stesso. Nella risposta Ambrogio dice come vorrebbe che fossero i vescovi (Lettera 24, in Opera omnia 19, 1988, p 237ss). "Prima eravamo addolorati che tu avessi una lite: la contesa ha giovato a uniformarti alla vita e al precetto dell'Apostolo. Quella (la lite) non conveniva a un vescovo, questa transazione si addice anche al modo di agire raccomandato dall'apostolo... Tu frattanto, configurato in apostolo di Cristo, facendo tua l'autorità del profeta, dirai al Signore: 'Hai posseduto i miei lombi" Salmo 138,13). A Cristo conviene piuttosto questa proprietà: gli conviene possedere, cioè, le virtù del suo vescovo, raccogliere i frutti propri dell'integrità e della continenza e ciò che vale di più della carità e della pace" (n 9 e n. 13).




Il Card. Martini - Vescovo del Dialogo -  mano nella mano con l'Imam Bashir-al-Bani, nel 1999, visita la moschea Omayyade di Damasco
 

Commenti

  1. Ciao Giovanni,
    mi associo volentieri al tuo invito alla riflessione in occasione di questa grave perdita.
    Ho velocemene letto le note contenute nel tuo blog, per i discorsi e gli scritti allegati sono costretto a rimandare ad altro momento.

    Anch'io stimavo profondamente questo uomo, mi affascinava la sua realesterminata cultura, ma, ancora di piu', la sua continua e costante messain dubbio della verità cara ad ogni credente, io, come ben sai, non traquesti.
    Ancora di piu', credo, mi sono sentito attratto dalle sue posizioni dicritica severa nei confronti della chiesa ufficiale, gli articoli comparsisui giornali in questi giorni ci riportano le sue dichiarazioni riguardantil'arretratezza culturale e l'incapacità ad interpretare la realtà con lainevitabili conseguenze. Emblematiche a tale riguardo le sue perplessità circa la posizione concernente il sesso, punto da lui chiaramenteindicato come di totale distacco dal mondo. A questo mi piacerebbeaggiungere le tematiche del fine vita, a proposito della quale mi pareche la scelta finale del cardinale abbia voluto significare qualche cosa,al di la' di fini distinzioni e cavilli legati ad aspetti tecnici concernentii trattamenti ammessi o da rifiutare.
    Ho voluto evidenziare questi aspetti, che ben so non essere i soli ad averecaratterizzato l'operato di questo grande uomo, innanzitutto perchè deglialtri ti sei occupato già tu con la tua abituale capacità ed anche perchèè cio' che ai miei occhi appare piu' significativo, contribuendo ad umanizzare una realtà che a me appare sempre meno evangelica ma, al contrario, semprepiu' attenta a conservare il proprio potere anche condividendolo direttamente con il diavolo.
    Ciao.
    Massimo Berton

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  2. Condivido quanto sopra in merito al cardinale MARTINI . Per quanto ci e possibile non bisogna lasciare cadere le sue idee , la Chiesa ne ha tanto bisogno. Ciao Giuseppe

    RispondiElimina

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